Nel fermo contro la ‘ndrangheta di Varese anche le minacce e i 233 mila euro versati dai titolari della stazione Eni di Dalmine. Il coraggio di denunciare i fatti in questura.
Si erano presentati in questura il 14 luglio del 2020 con gli occhi ancora pieni di paura, Valentino Rota e Aldo Pighizzini, soci titolari della stazione di servizio Eni di Dalmine, con tabaccheria, bar e autolavaggio, sulla provinciale. Pighizzini aveva perso otto chili in tre settimane, era stato anche tenuto sotto sequestro per ore in un’abitazione nel Varesotto. Li avevano truffati e per di più da loro volevano soldi — anzi, ne avevano ottenuti anche tanti: 233 mila euro — i calabresi: Domenico Ficarra, 37 anni, detto «Corona», nato a Saronno, e lo zio Daniele Ficarra, 45 anni, residenza ufficiale ancora a Gioia Tauro, entrambi considerati dalla Dda di Milano al vertice della cosca di ‘ndrangheta che imperversa a Como e Varese, colpita da un fermo per 54 persone scattato all’alba di lunedì.
Rota e Pighizzini vanno in questura quando gli spostamenti dei due Ficarra sono già monitorati dalla squadra mobile di Milano e dal Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, in tutta la Lombardia. Quindi anche a Dalmine. I due bergamaschi raccontano che a fine giugno 2020 Daniele Ficarra arriva alla stazione di servizio presentandosi come titolare della società di autonoleggio Af Luxury Rent. Vuole proporre una collaborazione stabile per lavare le auto. Ma poi frequenta sempre più spesso il bar, parla di un affare che si può fare grazie all’acquisto di un orologio per 23 mila euro, da rivendere a 40 mila. I due soci titolari si fidano, contribuiscono con 11 mila euro, ma ne ricevono indietro solo 5 mila, altro che guadagni. È solo l’inizio. Tra il 23 e il 25 giugno a farsi vedere è Domenico Ficarra, che nel frattempo «lavora» in Polonia, dove ha anche una relazione sentimentale: arriva a Dalmine e accusa i due soci di aver fatto fallire una serie di affari della famiglia calabrese. Vuole un «risarcimento», convoca i due soci all’autogrill Sebino, sull’A4. A presentarsi è solo Rota, che viene fatto salire su una Mercedes: «Tu non sai chi sono io, adesso tiro fuori la pistola e ti sparo qua davanti a tutti — sono le minacce di Domenico Ficarra, riportate dalle vittime —. Tu non puoi permetterti di truffare me che sono il boss. Qua comando io. Vi ammazzo tutti e due. Prima sgozzo Aldo, poi faccio a pezzi te e ti do in pasto ai maiali, poi vado avanti con le vostre famiglie, genitori, fidanzati, tutti li ammazzo».
In tre bonifici distinti, a fine giugno, sul conto della compagna di Domenico Ficarra, la polacca Anna Sapek, i bergamaschi, «completamente soggiogati in seguito alle minacce subite» come scrive la Dda di Milano, versano 168 mila euro. L’8 e il 10 luglio Pighizzini paga altri 64 mila euro. Ma non basta, l’11 luglio ancora lui riceve una chiamata da Gioia Tauro: a parlare è una donna che si presenta come zia di Domenico Ficarra, con forte accento calabrese consiglia di pagare ancora. Fino a quando, il 13 luglio, Pighizzini viene incrociato a Dalmine ancora da Ficarra, che lo costringe a salire su una Mercedes con targa della Repubblica Ceca. Nella denuncia dichiara di essere stato portato a Origgio (Varese), in un’abitazione. «Di qua non ce ne andiamo fino a che non mi dici come farai a darmi i 180 mila euro — è la nuova richiesta del calabrese —. Ti devo puntare il fucile alla testa?». Solo dopo aver promesso di pagare Pighizzini viene lasciato andare, costretto a versare mille euro come «rimborso» di quella giornata. Il giorno dopo, con il socio titolare, va in questura a denunciare tutto: grazie alle foto identificative dei sospettati, che ci sono già, scattano i primi riconoscimenti. Le indagini già in corso e la tutela della polizia consentono di uscire dall’incubo. I soldi, per ora persi, forse saranno recuperati grazie ai sequestri in corso.
Fonte corriere.it – Articolo di Armando Di Landro