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I fornitori dell’automotive sperano nella benzina sintetica per sopravvivere alla rivoluzione elettrica.

La discussione lungo l’asse Berlino-Bruxelles sul futuro dei motori a scoppio, nonché sulla necessità di introdurre anche gli e-fuel come alternativa al solo elettrico a partire dal 2035, divide il mondo dell’industria dell’auto. Da una parte ci sono le imprese che fanno parte della filiera delle fornitura, la parte che si sente più debole rispetto alla trasformazione che sta investendo il settore. Dall’altra ci sono i costruttori che hanno voluto – o dovuto – adeguarsi per tempo. Arrivando addirittura ad anticipare la data fissata dall’Unione Europea per l’abbandono del motore endotermico. L’agenzia Reuters aggiorna da tempo la mole degli investimenti in mobilità elettrica delle case automobilistiche, conteggiando gli annunci di 37 diversi produttori globali. La crescita è stata esponenziale. I costruttori prevedono di spendere quasi 1.200 miliardi di dollari entro il 2030 tra sviluppo dei veicoli elettrici, batterie e materiali. Una cifra imponente, raddoppiata negli ultimi due anni.

Le reazioni allo slittamento

I due mondi – da una parte i fornitori, dall’altra i grandi marchi globali – hanno salutato lo slittamento della ratifica del regolamento europeo sullo stop dal 2035 con accenti diversi. Entusiasmo per il possibile rinvio tra chi fa componenti, più attenzione per gli assemblatori finali. D’altronde gli effetti maggiori si sentiranno in negativo sulla catena di fornitura, quella che tifa per la strana alleanza tra Italia – che con il governo Meloni ha detto no alle norme che fanno parte del pacchetto “Fit for 55” – Bulgaria, Polonia e Germania che, agitando il rischio astensione, ha fermato all’utimo momento utile l’iter finale di ratifica da parte degli Stati. Ora le diplomazie sono al lavoro. Anche Parigi sta discutendo con Berlino, dove il governo gialloverde guidato dal cancelliere Olaf Scholz deve chiarirsi al suo interno, per capire se sia possibile arrivare a un compromesso sugli e-fuel e i biocarburanti. Unica possibilità per tenere in vita i motori a scoppio.

Lo slittamento ha messo però in evidenza tutte le contraddizioni interne al settore. Per fare un’auto elettrica ci vogliono un 30% in meno di componenti. Alcune parti meccaniche saranno destinate a sparire. E gli effetti occupazionali, con proiezioni che per l’Italia oscillano da 60 a 120 mila posti di lavoro persi e per l’Europa circa mezzo milione, si concentreranno sulle imprese della componentistica. Secondo le statistiche Clepa, l’associazione di categoria che ha sede a Bruxelles, le imprese della filiera sono più di tremila, concentrate tra Spagna, Francia, Italia, Germania e Paesi dell’Est, e danno lavoro a oltre 1,7 milioni di persone. Imprese che investono più di 30 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo. “La posizione delle imprese è chiara, per noi il termico non è finito”, dice Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali di Torino. “Ci vogliono una politica industriale italiana e una politica industriale europea che tengano conto di aspetti diversi: l’approvvigionamento delle materie prime, le tecnologie e il rischio dell’impatto sociale sulla comunità, sulla filiera. In Italia abbiamo un parco circolante molto vecchio, bisogna favorire la sostituzione di 15 milioni di vetture, ma non tutti possono permettersi l’auto elettrica. Ci vuole un passaggio graduale, bisogna tenere conto della sostenibilità del progetto. Se ci sono anche strade diverse dall’elettrico bisogna seguirle. Finalmente la politica ci ascolta”.

Quell’Europa contraria

Il governo della presidente Giorgia Meloni ha segnato comunque il punto, anche se alla fine il regolamento passerà. Marcando le differenze, i Paesi contrari lavorano in vista del 2026, quando una nuova Commissione, non più a guida Ursula von der Layen, e un nuovo parlamento potrebbe mettere mano alle norme. Il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, parla di “un’industria spiazzata, ma l’Europa ha tradito lo spirito di neutralità tecnologica iniziale imboccando la strada del solo elettrico”. Gianmarco Giorda, direttore dell’associazione dell’automotive italiano Anfia, dice che è necessario “fare chiarezza al più presto”. E aggiunge: “Si torna alla posizione originaria: crediamo fortemente nell’elettrico, visti gli investimenti portati avanti dai costruttori, ma insieme a tutte le altre tecnologie utili per la decarbonizzazione. Puntiamo sul principio della neutralità tecnologica che offre anche gli e-fuel ei biocarburanti”.

I manager delle grandi case automobilistiche parlano di “transizione forzata”, della necessità di aumentare gli incentivi per permettere alla classe media di acquistare le auto elettriche, ma tutti ormai si sono adeguati. Ed è per questo che un eventuale ritorno indietro imbarazzerebbe. I 1.200 miliardi di investimenti privati annunciati già entro il 2030 rappresentano un chiaro segnale della strada imboccata. Così come la richiesta fatta all’Europa di soprassedere sui nuovi standard Euro 7 di emissioni, l’ultima normativa sui motori a scoppio, perché distoglierebbe risorse necessari per sostenere la transizione all’elettrico verso una tecnologia, quella dell’endotermico, che dovrebbe scomparire. L’Acea, il club dei costruttori del Vecchio Continente guidato dal numero uno di Renault, Luca De Meo, non ha preso una posizione netta: “Stiamo monitorando attentamente le discussioni a livello di Consiglio e siamo fiduciosi che il processo legislativo farà il suo corso”. Segno che le 14 case europee non hanno una posizione unica.

Gli investimenti top

La classifica di Reuters è guidata da Tesla che investirà 200 miliardi di dollari tra elettrico e fabbriche di batterie, Volkswagen ha messo sul piatto più di 55 miliardi per l’elettrificazione e 57 miliardi per le gigafactory, Toyota circa 70 miliardi, Ford oscilla intorno ai 50, Mercedes ha stanziato 47 miliardi. Stellantis, partecipata dalla holding Exor che controlla anche Repubblica, prevede di impiegare più di 35 miliardi con l’obiettivo di avere in Europa una gamma elettrificata al 100% entro 2030. Piani che toccano anche l’Italia, dove il gruppo trasformerà le meccaniche di Termoli in gigafactory. Un investimento da 2,5 miliardi realizzato da Acc, joint venture con Mercedes e Total, che occuperà a regime duemila persone. Renault ha messo sul tavolo 11,8 miliardi al 2025, creando una società ad hoc, Ampere, ma non ha abbandonato i vecchi motori grazie alla partnership con il gruppo cinese Geely per sviluppare, fuori dall’Europa, nuovi ibridi. Una strada che indica come le scelte possano essere differenti. Per esempio, le tedesche, da Audi a Bmw, hanno avviato studi sugli e-fuel. L’elettrico prenderà piede, ma la monoproduzione oggi non è così scontata.

Fonte repubblica.it –  Articolo di Diego Longhin

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