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Perché l’Italia non ha firmato per la fine delle auto a benzina e diesel

Nel programma di lavoro per il 2021, la Commissione Europea ha annunciato il pacchetto di iniziative “Pronti per il 55 %” (Fit for 55) volto a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 % entro il 2030 per rendere l’Unione Europea climaticamente neutra entro il 2050. In attuazione di tale programma, la Commissione ha presentato una serie di proposte che danno avvio ad una revisione della normativa europea intesa a rafforzare la politica dell’UE in tema di clima ed energia. Molti i settori coinvolti, tra cui l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, l’uso del suolo, il cambiamento d’uso del suolo e la silvicoltura, la tassazione dell’energia, la condivisione degli sforzi e lo scambio di quote di emissioni. La realizzazione degli obiettivi a livello europeo dipende dall’azione dei singoli Stati, il cui contributo la Commissione incentiva senza tuttavia poter imporlo in termini quantitativi. Ciascuno Stato, in altre parole, fissa autonomamente i propri obiettivi e in questo quadro si collocano alcune recenti prese di posizione dell’Italia in merito alla riduzione dell’utilizzo di veicoli alimentati a combustibili fossili.

Il 10 novembre alla COP26 di Glasgow 38 governi e 11 case produttrici hanno firmato una dichiarazione che mira a porre fine alla vendita di auto con solo motore a combustione interna entro il 2035 nei mercati più avanzati ed entro il 2040 a livello globale. Tra i firmatari ci sono Paesi come il Canada e il Regno Unito, ma anche marchi come Ford, Mercedes-Benz, Volvo, General Motors e la cinese BYD. Molte però anche le assenze illustri: su tutte non c’è la firma dell’Italia, la cui mancata adesione fa seguito al rifiuto di sottoscrivere anche l’impegno, proposto nel “Fit for 55”, a cessare la vendita di auto a benzina e diesel dal 2035.

Le motivazioni addotte dal Ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e riportate dalla stampa suonano così: “«Dobbiamo affrontare la transizione ecologica con un approccio tecnologicamente neutrale: decarbonizzazione non può diventare sinonimo di elettrico. Così facciamo diventare ideologico un percorso che invece deve essere razionale. (…) Tutti vogliamo combattere l’inquinamento, vivere in un mondo più sano e compatibile con l’ambiente – dice il ministro – e per questo non possiamo bocciare altre strade in modo pregiudiziale». Giorgetti indica in primo luogo le auto a idrogeno e continua: «Devono proseguire ricerca e studio su altri combustibili non fossili, sui quali le nostre imprese stanno facendo investimenti importanti: non possono essere esclusi a priori».”

Una tassonomia delle auto elettriche

Queste dichiarazioni sono interessanti perché alimentano un equivoco persistente contro il quale da tempo si cerca di fornirne un’informazione scientifica corretta. L’errore è considerare auto elettriche solo quelle che ricavano dalle batterie l’elettricità di cui ha bisogno il motore elettrico. Veicoli a batteria esistono in diverse varianti: le auto elettriche ibride (hybrid electric vehicle o HEV, articolate in mild o full), le ibride plug-in (plug-in hybrid electric vehicle o PHEV) e quelle a batteria soltanto (battery electric vehicle o BEV). Escluse le BEV, le altre hanno anche un motore termico, a benzina o gasolio, prevalente o di supporto rispetto a quello elettrico. Le batterie di bordo, tipicamente agli ioni di litio, sono soggette a cicli di carica e scarica, proprio come le batterie che abbiamo nei nostri telefoni cellulari, delle quali sono le sorelle maggiori. La ricarica è in genere effettuata durante la corsa dal motore elettrico, che può funzionare “a rovescio” da generatore elettrico, e nelle PHEV e BEV anche tramite connessione ad un punto di ricarica esterno, sia esso domestico, a colonnina o a stazione di elevata potenza.

Il fatto è che esistono anche altre auto elettriche. Lo sono in particolare quelle ad idrogeno, che infatti usano motori elettrici, sistemi di controllo elettrici, sviluppano la frenata rigenerativa per risparmiare energia, proprio come le HEV, PHEV e BEV. Vengono chiamate FCEV (fuel cell electric vehicle) in quanto ricavano l’elettricità che alimenta il motore elettrico da una cella a combustibile (fuel cell o FC) che non si scarica, ma continua a funzionare fintanto che è rifornita con l’idrogeno (il combustibile, appunto) che è stoccato nei serbatoi di bordo alla pressione di 350-700 atmosfere. Qui non ci sono batterie da ricaricare con connessioni esterni, ma idrogeno da rifornire. Dunque anche le FCEV sono auto elettriche, anzi sono più elettriche di HEV, PHEV, perché, come le BEV, non hanno il motore termico e quindi non bruciano benzina o gasolio e non emettono CO2, ma solo acqua pura, H2O. In linea di principio l’idrogeno poterebbe essere usato anche in un motore termico al posto della benzina o del gasolio, ma questa soluzione, sperimentata qualche anno fa senza successo da alcune case automobilistiche, è oggi di fatto abbandonata.

Quando la Commissione Europea dichiara di voler realizzare la messa al bando delle auto dotate solo di motore termico, incentivando quelle elettriche, intende riferirsi sia alle auto elettriche a batteria che alle auto elettriche ad idrogeno, coerentemente con la definizione di “veicolo elettrico” utilizzata, ad esempio, nella direttiva 2014/94/UE del 22 ottobre 2014, sulle infrastrutture per i combustibili alternativi. La differenza consiste, semmai, proprio nelle infrastrutture per i due tipi di alimentazione: la rete elettrica di ricarica e l’infrastruttura per il rifornimento di idrogeno. Incidentalmente, gli interventi del Ministro sopra citati non si soffermano sulla necessità di sviluppare ed adeguare tali infrastrutture nel nostro Paese.

La filiera produttiva dell’automobile

Lo stesso ministro Giorgetti è tornato sulla questione durante il Question Time alla Camera del 24 novembre scorso: “[Il Governo] ritiene necessario proporre alla Commissione Ue una revisione del pacchetto citato per favorire una gestione della transizione ecologica che tenga conto delle esigenze dell’industria automobilistica italiana e degli aspetti sociali ad essa legate”. Questa motivazione, più fondata della precedente contrapposizione elettrico/idrogeno, costituisce una difesa dell’industria italiana della componentistica automobilistica, che sarà stravolta dall’avvento delle automobili elettriche (a batterie e a idrogeno).

È però improbabile che l’arroccamento su assetti tradizionali sia una strategia vincente. La storia ci insegna che lo sviluppo tecnologico evolve secondo dinamiche proprie e i tentativi di arrestarlo, rallentarlo o deviarlo sono destinati ad una fine dolorosa. Succedeva già agli albori dell’età industriale, quando iniziarono ad essere introdotte le prime forme di automazione del lavoro manifatturiero. Per fare pochi esempi, il telaio realizzato a Danzica del 1586 da Anton Möller, capace di tessere da 4 a 6 nastri contemporaneamente offriva una produttività rivoluzionaria. Causò sommosse dei salariati tradizionali spaventati di perdere il lavoro, che arrivarono a distruggere i macchinari, ma poi si affermò in Europa, segnando un passo importante nella meccanizzazione della produzione tessile. Nel 1589 William Lee costruì una macchina da maglieria che produceva automaticamente calze sagomate. Elisabetta I non concesse la patente (i brevetti non esistevano ancora in quel paese), per timore che la macchina causasse sommosse. Ma dopo essersi diffusa in Francia, la macchina si affermò anche in Inghilterra dove per il 1660 ne erano in funzione 650. Una sorte simile capitò al telaio a spola volante di John Kay del 1730 che poi divenne un elemento importante della rivoluzione industriale tessile. E lo stesso successe al telaio automatico per tessere stoffe operate di Joseph-Marie Jacquard del 1804, che era di fatto una macchina a programma memorizzato mediante le schede perforate che controllavano i movimenti dei licci. Le schede di Jacquard ebbero poi una storia gloriosa: vennero mutuate per l’immissione delle informazioni nei primi calcolatori ed evolsero nella celebre scheda IBM, che per decenni ha consentito l’immissione di programmi e dati nelle prime generazioni di elaboratori elettronici.

Come ricordava Gordon Moore, fondatore di Intel e uno dei padri della microelettronica, la scelta vincente nell’evoluzione tecnologica è collocarsi in posizioni d’avanguardia promuovendo ed anticipando i cambiamenti, non nell’affannarsi ad inseguirli. La politica europea del Green Deal favorirà sempre di più gli sviluppi che migliorano l’efficienza energetica: la proposta elaborata dalla CE indica chiaramente come il principio “energy efficiency first” costituisca una condizione irrinunciabile di tutte le politiche di settore. Sarebbe quindi saggio, invece che tentare di rallentare lo sviluppo tecnologico, cogliere questo momento di elevata attenzione alla transizione per anticipare le evoluzioni, come altri paesi stanno già ampiamente facendo. È bene che le nostre aziende se ne rendano conto immediatamente ed inizino subito a muoversi per affrontare tale evoluzione.

Fonte ilbolive.unipd.it – Articolo di Massimo Guarnieri e Alessandra Pietrobon

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