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C’è la siccità, ma a Roma mille autolavaggi eludono le norme (incerte) e utilizzano acqua potabile

Gli impianti annessi ai distributori di benzina sono obbligati ad attingere dal pozzo artesiano e a rispettare tutte le procedure per la depurazione e lo smaltimento delle acque reflue. Per le «sale umide», equiparate ad attività artigianali, basta la Scia

Nel Lazio si contano già i primi danni provocati dalla siccità e le previsioni per i prossimi giorni indicano picchi di 40 gradi: nel comparto ortofrutticolo si stimano perdite per 250 milioni di euro e un crollo della produzione del 30 per cento. E però nella città dei mille paradossi, mentre si ragiona su come evitare gli sprechi, succede che un migliaio di autolavaggi utilizzi l’acqua potabile per lavare i veicoli.

A causa dell’aridità persistente ieri il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha firmato il decreto nel quale proclama lo stato di calamità naturale oltre a «prendere atto delle misure straordinarie indispensabili per la gestione dell’emergenza idrica e il sostegno alle popolazioni e alle attività produttive». Il presidente della Regione ha chiesto inoltre al dipartimento della Protezione civile della Presidenza del consiglio di dichiarare lo «stato di emergenza». 

Nel frattempo a Roma sono circa un migliaio, secondo le stime dei sindacati del settore idrocarburi, le «sale umide», locali adibiti al lavaggio di auto e moto che utilizzano l’acqua potabile a differenza degli impianti annessi alle stazioni di servizio, obbligati ad attingere dai pozzi artesiani e a rispettare le procedure di depurazione e smaltimento delle acque reflue. La zona grigia, questione mai chiarita dalle amministrazioni avvicendatesi negli anni, si è venuta a creare anche a causa di uno strumento, l’autocertificazione, che se da un lato snellisce la trafila burocratica dall’altro complica i controlli.

Molti degli autolavaggi a prezzi popolari (10 euro per un’utilitaria tirata a lucido), assai diffusi nei quartieri semiperiferici, ricadono sotto la categoria «artigianato», malgrado il consumo idrico di gran lunga superiore alla media. Per alzare la serranda – spesso si tratta di ex garage – basta la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), mentre per i distributori di benzina l’iter è più complesso: «I nostri impianti devono avere il pozzo – sottolinea Fabrizio Zaino, segretario nazionale di Fegica (Federazione italiana gestori carburanti e affini) – e se sorge un problema dobbiamo richiedere una deroga per utilizzate l’acqua potabile per un breve periodo in attesa del ripristino. Vorremmo che valessero per tutti le stesse regole, altrimenti il rischio è che si crei concorrenza sleale».

Il dibattito si ripropone nel momento in cui si teme che l’assenza di precipitazioni costringa al razionamento idrico: ieri, tuttavia, Acea ha di nuovo assicurato che in questi giorni non è prevista alcuna riduzione di pressione o turnazione del flusso. Resta il tema degli sprechi: «Abbiamo chiesto più volte al Comune di prendere una posizione – racconta Zaino – ma non abbiamo mai ottenuto una risposta definitiva. Il punto è: se noi dobbiamo ottemperare a una serie di regole, dalla depurazione delle acque ai controlli periodici e all’utilizzo di saponi biodegradabili, è corretto che migliaia di attività aprano con una semplice autodichiarazione senza alcun controllo? Paghiamo l’acqua del pozzo, ma se utilizzassimo quella di Acea i costi sarebbero cinque volte superiori… non per gli altri, però…».

Ieri anche il sindaco, Roberto Gualtieri, è tornato a escludere misure drastiche : «Roma non sarà interessata da emergenze idriche. Gli investimenti degli ultimi anni hanno garantito una riduzione di perdite sulla rete che garantiranno regolarità nell’erogazione. Rimane attuale l’invito che rivolgo ai cittadini, affinché si utilizzi in modo attento e responsabile un bene prezioso come l’acqua».

Fonte roma.corriere.it –  Articolo di Maria Egizia Fischetti

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