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Eni e Shell: assolti Descalzi, Scaroni e tutti gli altri imputati del caso tangenti Nigeria.

La sentenza di primo grado del processo milanese sull’acquisto nel 2011 della licenza petrolifera marittima. Il prezzo pagato ufficialmente al governo della Nigeria era ritenuto dai pm la più grande tangente mai pagata a politici e burocrati stranieri.

Tutti assolti i 13 amministratori o intermediari di Eni e Shell, e nessuna confisca alle società di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, nella sentenza di primo grado del processo milanese sull’acquisto nel 2011 – per quel prezzo pagato ufficialmente al governo della Nigeria, ma ritenuto dai pm la più grande tangente mai pagata a politici e burocrati stranieri – della licenza petrolifera marittima «Opl 245» detenuta dall’ex ministro del Petrolio, Dan Etete, il quale anni prima se la era autoattribuita dietro lo schermo della società Malabu. La VII sezione penale del Tribunale di Milano ha infatti assolto l’allora direttore generale e attuale amministratore delegato Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore sino al 2014 Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan e vicepresidente di banca Rothschild in Italia, che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro avevano candidato a 8 anni di carcere, quasi al pari (7 anni e 4 mesi) dell’allora omologo di Shell pure prosciolto, Malcom Brinded.

Il ministro, il lobbista, l’ambasciatore, le ex spie.
Il collegio, presieduto da Marco Tremolada con i giudici Mauro Gallina e Alberto Carboni, ha assolto anche l’ex ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete, che rischiava 10 anni; poi (ad onta di richieste pure tra i 6 e i 7 anni) il lobbista più influente su Scaroni, Luigi Bisignani, che stavolta esce indenne da un grosso processo dopo invece i 2 anni e mezzo incassati negli anni ‘90 per l’affare Enimont durante Mani Pulite, e i 19 mesi patteggiati nel 2011 a Napoli per associazione e delinquere, favoreggiamento e rivelazione di segreto nel processo sulla «P4»; e l’ex ambasciatore russo in Colombia (mediatore di Shell) Ednan Agaev, per il quale a inizio del processo nel 2018 si era scomodato, con una lettera ufficiale alla Farnesina chiedendo irritualmente che fosse scagionato già in partenza, il ministro degli Esteri di Putin, Sergej Lavrov. Anche Roberto Casula e Ciro Pagano, ex alti manager di Eni in Africa, sono stati assolti assieme al top manager di Shell, Peter Robinson; ad altri due consulenti del gruppo olandese che in passato erano stati capicentro del servizio segreto inglese M16 ad Abuja (in Nigeria) e a Hong Kong, Guy Colgate e John Coplestone; e al fornitore di logistica per Eni e viceconsole onorario ad Abuja, Gianfranco Falcioni, titolare della piccola società stranamente coinvolta nel primo tentativo di bonifico del prezzo pagato al governo nigeriano.

La figura double-face di Armanna
L’assoluzione arride pure all’allora capo in Eni del progetto «Opl 245», Vincenzo Armanna, che per metà era coimputato di essersi ritagliato 1,2 milioni di dollari sotto il pretesto di una eredità paterna e di un commercio d’oro, e per metà era autore di controverse dichiarazioni accusatorie nei confronti di Descalzi, assai valorizzate dalla Procura a dispetto di non poche smentite. Una insistenza a tratti sorprendente nella pubblica accusa, impermeabile di udienza in udienza al sempre più evidente rischio che finisse per depotenziare o addirittura minare il resto del tentativo invece di lavoro documentale dei pm sui flussi finanziari e sulle oggettive incongruenze dell’iter della trattativa contrattuale in Nigeria.

Un tesoro dentro l’assoluzione
Ma la più preziosa è, per le persone giuridiche Eni e Shell, l’assoluzione dall’illecito amministrativo previsto dalla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai vertici nell’interesse aziendale, perché essa vale una fortuna: consente infatti alle due multinazionali di schivare la colossale confisca di 1 miliardo e 92 milioni caldeggiata dall’ufficio inquirente del procuratore Francesco Greco, e l’altrettanto ingente risarcimento dei danni chiesto dallo Nigeria costituitasi parte civile. Ed ora Eni, che con Shell rimarca di aver investito complessivamente 2 miliardi e mezzo anche in infrastrutture inutilizzate, lamenta il fatto che, tra cause in Nigeria e processi in Italia, la licenza esplorativa Opl 245 sia paradossalmente prossima a scadere già fra due mesi, senza che sia ancora mai stato estratto un barile di petrolio.

La battaglia attorno al giacimento
La Procura addebitava alle società petrolifere Eni e Shell le intese corruttive con l’ex ministro nigeriano del Petrolio (ai tempi del dittatore Sani Abacha), titolare in modo illegittimo (dietro la prestanome società Malabu) della licenza di esplorazione Opl 245. In una prima fase la Shell e l’Eni si avvalsero di intermediari per i rapporti con Etete. Shell usò l’avvocato d’affari russo Ednan Agaev, ex ambasciatore in Colombia, in rapporti con l’ex capo del servizio segreto britannico MI6 in Nigeria, John Copleston, divenuto manager Shell (come il collega Guy Colegate già 007 a Honk Kong) sotto l’egida del capo del settore commerciale di Shell, Peter Robinson. Il loro interlocutore era il generale Aliyu Gusau, capo dei servizi segreti nigeriani. Eni invece si servì di un intermediario nigeriano (Emeka Obi in tandem con il socio d’affari Gianluca Di Nardo) che il lobbista Luigi Bisignani aveva accreditato presso l’allora n.1 Eni Paolo Scaroni, che a sua volta lo aveva raccomandato a Descalzi.

Su pressione di Shell a un certo punto Obi (che attendeva di ricevere una grossa commissione da Eni) fu tagliato fuori dal seguito dell’affare, e per i pm anche Eni trovò comunque troppo elevato il rischio reputazionale di comprare la licenza da Etete, che in Francia per altre vicende aveva già avuto una condanna per riciclaggio. Così sarebbe stato ideato il secondo schema, che replicava il primo ma in apparenza senza più intermediari e senza l’ingombrante presenza di Etete: insomma, per dirla con una metafora di Agaev e del settimanale inglese Economist, lo stesso schema ma con il «preservativo», nel senso che in teoria Eni e Shell passavano a comprare la licenza (a chiunque appartenesse dietro la società Malabu) direttamente dal governo nigeriano. Ma quegli accordi, era la tesi della Procura ora non validata dal Tribunale, comprendevano già il fatto che in apparenza il prezzo di 1 miliardo e 92 milioni venisse pagato ufficialmente nel 2011 su un conto del governo nigeriano, ma in realtà con la pattuita consapevolezza che andasse poi a remunerare gli sponsor politici di Etete, quali il presidente Goodluck Jonathan (in passato insegnante privato dei figli di Etete), il ministro della Giustizia Adoke Bello (già suo avvocato, e ora riparato proprio nella Olanda di Shell), o il successivo ministro del Petrolio Diezani Alison-Madueke (ex assistente di Etete e già top manager di Shell).

Tutti burocrati che, al netto della quota maggioritaria trattenuta direttamente da Etete sul miliardo e 92 milioni, per la Procura erano poi stati corrotti con la provvista di almeno 500 milioni di dollari fisicamente prelevati in contanti e gestiti poi dal faccendiere nigeriano Abubakar Aliyu presso uffici di cambio di Abuja. Obi però non si rassegnò ad essere escluso dall’affare da cui si attendeva laute commissioni e nel luglio 2011 fece causa a Etete a Londra, ottenendo dalla giustizia civile inglese il diritto a ricevere da Etete 119 milioni di dollari (dei quali 21 milioni di franchi svizzeri girati a Di Nardo), ma disvelando nella causa alcuni passaggi della vicenda che, anche su impulso poi delle organizzazioni non governative Re:Common, The Corner House e Global Witness, innescarono l’inchiesta milanese nel 2014 con il sequestro dei soldi di Obi e Di Nardo, condannati nel 2018 in rito abbreviato di primo grado a 4 anni e alla confisca dei soldi.

Il contrasto con l’altra condanna
L’assoluzione di oggi nel filone principale, che per questi 13 imputati esclude la corruzione internazionale nell’affare «Opl 245», non si concilia con la condanna che – nel settembre 2018 ma con rito abbreviato in uno stralcio giudicato prima – proprio per la medesima corruzione internazionale fu invece inflitta dalla giudice dell’udienza preliminare Giusi Barbara al coimputato intermediario Emeka Obi e al suo socio Gianluca Di Nardo (partner d’affari di Bisignani): 4 anni di carcere e confisca dei 100 milioni (sequestrati loro nel 2014 in Svizzera) che Obi e Di Nardo erano riusciti a farsi riconoscere a Londra da una Corte inglese, davanti alla quale avevano fatto causa a Etete per farsi da lui pagare la commissione alla quale ritenevano di avere diritto per la propria intermediazione. Neanche a farlo apposta, il processo d’appello (i cui atti non coincidono con quello del filone principale odierno, perché in più ha le dichiarazioni rese in abbreviato da Obi e le intercettazioni napoletane di Scaroni-Bisignani non acquisibili dal processo principale) inizierà la settimana prossima.

L’inchiesta sul «complotto»
Adesso alla Procura di Milano resta da concludere, con una richiesta di giudizio o di archiviazione, l’indagine-contenitore che da tre anni sta conducendo per l’ipotesi di «induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria», e cioè sul cosiddetto «complotto». Ossia sui depistaggi di varia natura che – secondo i pm, e secondo quanto ha affermato Armanna in tribunale nel luglio 2020 – avrebbero influenzato nel 2016-2017 l’ondivago comportamento processuale di Armanna tra affermazioni, ritrattazioni, e controritrattazione delle ritrattazioni attribuite a una strategia di inquinamento di matrice Eni: strategia ispirata, in un primo schema d’ipotesi esplorato dai pm, dall’allora responsabile degli affari legali Massimo Mantovani, e in un secondo schema d’accusa dal numero tre Eni, Claudio Granata, nell’interesse di Descalzi. In attesa di definizione sono anche i fascicoli per le ipotesi di «corruzione tra privati» riguardanti tra gli altri l’ex numero due Eni, Antonio Vella, Armanna e Amara.

Fonte corriere.it –  Articolo di Luigi Ferrarella

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