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Petrolio: la strategia di Trump e quella di Biden / L’ANALISI

Ad aprile 2018 con i prezzi del petrolio vicini ai massimi di tre anni a 75 dollari al barile, i ministri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio riuniti a Gedda erano felici. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, però ruppe l’atmosfera idilliaca scagliandosi contro i prezzi troppo alti: «Sembra che l’Opec insista. Con quantità da primato di petrolio ovunque, comprese le navi a pieno carico in mare, i prezzi del petrolio sono artificialmente molto alti! Non va bene e non sarà accettato!», twittò l’inquilino della Casa Bianca. Questa dichiarazione, scrive il Financial Times, segna un’era di interventismo presidenziale sul mercato petrolifero come mai vista prima. Ma le cose cambiano in fretta. Il nuovo presidente Joe Biden sembra più focalizzato sulla transizione verde e difficilmente porterà avanti la diplomazia petrolifera con i tweet: «L’approccio di Trump era spesso contraddittorio e sfidava le convenzioni. Ma ha colpito nel segno il più delle volte, affermano gli esperti del settore», spiega Ft. «Il presidente ha spesso usato Twitter invece di inviare il segretario di Stato in Medio Oriente o l’ambasciatore degli Stati Uniti in Arabia Saudita», dice Amy Myers Jaffe, professore all’Università Tufts di Boston, Massachusetts, «e la cosa ha funzionato. Ciò che è iniziato con Trump che proclamava “il dominio energetico americano” e rimproverava l’Opec di non aver estratto abbastanza petrolio (per far abbassare i prezzi) ha raggiunto il suo culmine quest’anno, quando The Donald ha esortato il cartello ad aumentare i prezzi per salvare le compagnie shale statunitensi dal fallimento». 

Mentre Trump ha parlato dozzine di volte, su Twitter, di petrolio o di Opec da quando è diventato presidente – molto spesso quando i prezzi diventavano troppo alti e si avvicinavano ai 70 dollari al barile – al contrario Biden potrebbe prendere spunto da quanto fatto da Obama. Quest’ultimo, infatti, in otto anni di presidenza, ha citato l’Opec sui social solo un paio di volte. Per tutto il resto del tempo il petrolio ha navigato sotto il radar della politica. Per molti analisti sul piatto presidenziale di Biden ci saranno pietanze più urgenti rispetto alla diplomazia petrolifera: dalla pandemia, alla distribuzione dei vaccini, agli stimoli a un’economia sofferente. Svanirà inoltre l’influenza del miliardario Harold Hamm, capo della compagnia shale Continental Resources, che secondo la società di consulenza Rapidan Energy, era il consigliere di Trump in materia energetica.

Al suo posto, entreranno esperti focalizzati sull’ambiente come Gina McCarthy, ex regolatore ambientale che coordinerà la politica come «zar del clima». Forse è per questo che alcuni produttori di petrolio statunitensi temono che il cambiamento possa colpire la produzione di greggio del Paese, come i piani di Biden per norme più severe sull’inquinamento e limiti alle perforazioni. Scott Sheffield, amministratore delegato della compagnia shale Pioneer Natural Resources, recentemente ha detto al Financial Times che la produzione Usa – in calo del 15% a causa della crisi di quest’anno – potrebbe scendere di un ulteriore 3% nel prossimo decennio a causa delle politiche di Biden. Eppure, nonostante il sostegno di Trump, l’industria petrolifera durante gli ultimi quattro anni non è andata benissimo.

Anche prima della pandemia, l’industria shale aveva molte ombre, colpita da un modello di business che ha gonfiato l’offerta distruggendo, allo stesso tempo, miliardi di dollari di capitale. Wil VanLoh, il capo del gruppo di private equity Quantum Energy Partners, ha detto al Ft che la ricerca precipitosa della crescita della produzione ha «trivellato il cuore dall’anguria». L’impennata dei fallimenti e il licenziamento di decine di migliaia di lavoratori hanno tolto il velo a un settore in profonda difficoltà. Ad andare a sbattere contro il muro, è stata Chesapeake Energy, azienda pioniera della rivoluzione dello scisto. Ma la crisi si è diffusa anche ai vertici dell’industria petrolifera statunitense.

ExxonMobil, un tempo la maggiore azienda del mondo per capitalizzazione di Borsa, ha subito tre perdite trimestrali consecutive e nel 2020 ha tagliato le spsese e ridotto i posti di lavoro. Stesso destino per la rivale Chevron. L’indice S&P 500 energy che comprende la maggior parte delle compagnie oil&gas ha perso oltre un terzo del suo valore da quando Trump è diventato presidente, a gennaio 2017, e il collasso del marzo 2020, mentre da allora ha perso un altro 11%. Con Obama, l’indice era aumentato di più della metà. Secondo molti esperti, una ripresa di questi titoli appare dietro l’angolo, nonostante la vittoria elettorale di un candidato alla presidenza che durante la campagna elettorale ha dichiarato di voler attuare «una transizione dell’industria petrolifera». Provocando una serie di polemiche politiche con i Repubblicani che lo hanno accusato di voler distruggere migliaia di posti di lavoro.

È vero che Biden sarà messo sotto pressione dalla sua base per realizzare le promesse di una rivoluzione verde, ma molti addetti ai lavori dell’industria petrolifera sono ottimisti: «Sono fiducioso che Joe Biden, che ha trascorso anni e anni nella Commissione per le relazioni estere del Senato, comprenda la differenza tra un’epoca in cui gli Stati Uniti dipendevano dall’import di energia e gli anni in cui ci troviamo ora, che è un’era dell’abbondanza», ha osservato Mike Sommers, presidente dell’American Petroleum Institute. Altri concordano che Biden avrà poca scelta una volta in carica se non quella di impegnarsi nella diplomazia petrolifera internazionale. Trump infatti non è stato il primo presidente a chiedere all’Opec di abbassare i prezzi del petrolio per favorire gli americani. In passato anche George W. Bush aveva esortato l’Arabia Saudita a tagliare la produzione e aumentare i prezzi per salvare i produttori di greggio americani. «La stabilità economica internazionale dipende ancora dai prezzi del petrolio», ha tagliato corto Jaffe, «così come da questo settore dipendono moltissimi posti di lavoro».

«Il crollo che ha travolto il mercato petrolifero quest’anno avrebbe colpito anche Biden», dice Sarah Ladislaw, capo del programma per la sicurezza energetica e il cambiamento climatico presso il Centro di studi strategici e internazionali di Washington. Ma è probabile che il nuovo presidente sia meno esplicito di Trump sul petrolio e meno incline a rimproverare l’Opec su Twitter. «Mantenere un ruolo di riferimento sull’economica globale significa che gli Stati Uniti devono necessariamente preoccuparsi di un prezzo del petrolio troppo alto o troppo basso» conclude Jaffe.

Fonte themeditelegraph.com

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